domenica 30 novembre 2008

Regata con MOB 2


Ecco la foto del naufrago!

mercoledì 26 novembre 2008

Regata con MOB





Domenica 23 novembre c’è stata la terza regata del Campionato invernale di Fiumicino. E' stata la mia seconda dell’anno, a bordo di Selvaggia.
Finalmente, è stata una regata con un po’ di vento. Selvaggia,infatti, con le ariette arranca e non può esserle troppo rimproverato: è un Comet 13, pesante, vecchiotto e ben attrezzato per andare in crociera, con tutte le vele avvolgibili, una bella cucina, tanti legni e un quadrato che fa invidia a barche più grandi, un motore pesante e potente che quasi ne fa un motorsailer.
E ancora di più, Selvaggia arranca nella classe in cui il Circolo l’ha inserita, senza considerarne le caratteristiche, ma soltanto in base al fatto che le vele, pur se avvolgibili, sono in tessuto “esotico”: la classe “Crociera veloce”, quella cioè in cui si trovano barche che sono da più da regata che da crociera, i cui armatori però non vogliono rischiare troppo o non vogliono investire cifre eccessive o, ancora, in qualche caso vogliono vincere con una relativa facilità.
Quando il vento c'è invece Selvaggia non si comporta male: sbanda meno delle altre, non ha bisogno di ridurre le vele, non viene fermata dalle onde… Insomma, dimostra che un dislocamento pesante in qualche caso è un elemento di marinità.
Peccato che la regata, che avrebbe permesso un posizionamento non troppo malvagio di Selvaggia in classifica, sia stata interrotta a poche centinaia di metri dal traguardo dal fatto che, come un carciofo, io sia caduto in acqua. In un modo semplice quanto stupido.
In una strambata con il gennaker se ne è sganciata la scotta sottovento e io, volenteroso ma per nulla saggio, sono andato a prua ad aiutare i prodieri. Sulla prua (troppo) affollata è bastato un piccolo urto per farmi perdere l’equilibrio, farmi rotolare sulla draglia e farmi finire con una bella capriola in mare.
Nonostante non fossero riusciti a lanciarmi l’anulare e non avessi il salvagente, la temperatura dell’acqua mi ha rassicurato. L’acqua infatti non mi è sembrata particolarmente fredda e mi sono accorto di poter restare a galla agevolmente nonostante i vestiti invernali e gli stivali. Così ,pensando alla mia stessa stupidità, sono rimasto per qualche minuto a sguazzare in attesa che su Selvaggia ammainassero il gennaker, accendessero il motore (che ovviamente ha fatto le bizze) e mi venissero a prendere.
Risalire a bordo forse è stata la cosa più difficile e faticosa (soprattutto per gli altri membri dell’equipaggio): infatti mi hanno dovuto tirare sulla spiaggetta di poppa, visto che la presenza di due persone sulla spoiler rendeva possibile abbassare la scaletta, che è integrata nello spoiler stesso.
A bordo non mi hanno assalito, come su qualche altra barca sicuramente avrebbero fatto, piuttosto mi hanno coccolato: mandato sotto coperta al caldo, consegnato una serie completa di asciugamani e vestiti asciutti, offerto grappa, vino, pizza e persino un toscano con cui scaldare le mani. Insomma, mi hanno fatto apprezzare il fatto che Selvaggia non fosse una spoglia barca da regata, ma una barca comoda e ben fornita di qualsiasi cosa si possa desiderare.
Ecco qui intorno qualche foto di Selvaggia e del suo equipaggio: Marco (lo skipper e armatore), Armando, Fabio, Francesco, Gianluca. Nelle foto non c’è Piero, al quale il mal di schiena ha perduto la prima bella regata della stagione e una scena che (per fortuna) sarà ricordata come comica.

mercoledì 19 novembre 2008

Strage di delfini alle FarOer

Cliccando sul titolo si accede al post pubblicato da Navigamus sulla strage di delfini che da circa 2 secoli, ogni anno, viene condotta alle Isole FarOer. Non è l'unica strage di cetacei e Navigamus ne cita altre.
La notizia è corsa in questi giorni lungo molti blog. Quasi tutti molto scandalizzati. Io in realtà lo sono un po' meno. Non mi sembra una notizia nuova o straordinaria e non mi fanno troppa impressione la strage, nè il mare tinto di sangue.

In realtà penso che il nostro problema (e quello dei cetacei) non siano queste "stragi rituali", che sono possibili fin quando c'è un certo equilibrio nell'ecosistema, ma il fatto che esse tra poco non saranno più possibili.

Non credo che i nemici dei cetacei siano i cacciatori per un giorno danesi. Piuttosto, i nemici dei cetacei sono le imprese che scaricano in mare le loro acque reflue, le reti e le lenze gallegianti, le navi che solcano i nostri mari ad alta velocità ed utilizzando combustibili "sporchi" e così via, fino ad arrivare alla pesca industriale sistematica e quotidiana dei cetacei.

Forse vale la pena dare la "notizia" (che è tale da alcune decine di anni) soltanto per poter parlare delle vere stragi. Quelle che non appaiono nelle fotografie e che a volte non scandalizzano neanche, ma che se non mietono più vittime nell'immediatezza, fanno sì che i processi di recupero e riproduzione di molte specie animali non possano più avvenire.

lunedì 10 novembre 2008

Isole attorno all'Africa



Di ritorno da Nairobi, dove di mare non ne ho visto, mi è tornato il desiderio di navigare in Africa.

A generare questa specie di “saudade” sono state alcune alcune vecchie fotografie del porto di Mombasa e di Zanzibar, che hanno richiamato alla memoria le barche a vela tra gli ippopotami sul lago Naivasha e i vecchi optimist e vaurien utilizzati come barche da pesca sulle spiaggie di Maputo.

A una saudade generica – che mi ha ricordato anche il libro di Carlo Auriemma e Elisabetta Eordegh, Mar d’Africa (http://www.barcapulita.org/) – è però anche subentrata una curiosità specifica e un sogno.

Questa curiosità e questo sogno hanno al centro le isole distribuite intorno al continente. Non tanto quelle più grandi, come il Madagascar, quanto le decine di piccole isole a volte quasi attaccate al continente che per un lunghissimo periodo - dal medioevo fino alla metà del XIX secolo almeno - il principale luogo d’incontro tra l’Europa e l’Africa, visto che erano il luogo dove gli europei stabilivano le loro stazioni di commercio, relativamente al sicuro dalla malaria, che prima della scoperta del chinino costituiva un ostacolo quasi insormontabile all’occupazione europea della terra ferma.

Ho provato a fare un elenco delle isole che potrebbe essere interessante visitare.

E’ un elenco che potrebbe suggerire molte rotte. Nel raccontarlo non ho tenuto conto dei venti: quasi su tutte le coste considerate ci sono alcuni venti stagionali dominanti. Se si volesse avventurarsi a fare un viaggio così ci si dovrebbe preparare a lunghe pause, ma potrebbe valerne la pena.

Si può iniziare dalle isole Pelagie oppure da La Galite, passando poi per Djerba e le isole Kerkennah nel golfo di Gabes, destinazioni poco esotiche e ormai colonizzate dal turismo di massa, ma che comunque restano una delle porte della costa meridionale del Mediterraneo.

Continuando verso est si potrebbe poi far scalo a Creta, per la suggestione africana che in quest’isola ha lasciato la vecchia storia dei Popoli del mare (una bella lettura su questa vicenda è “Atena Nera” di M.Bernal).

Da lì ci si può dirigere direttamente allo stretto di Suez, per entrare nel Mar Rosso. Io però sarei anche incuriosito da Alessandria e dal delta del Nilo.

Una volta nel Mar Rosso sono possibili scelte diverse: ci si può fermare nelle isole lungo costa egiziana, oppure si può mettere la prua alle Isole Dalhak, di fronte all’Eritrea (ormai sospetto siano diventate una meta turistica, ma io le ricordo ancora nelle fotografie di “Sesto Continente”). In ogni caso la ricca vegetazione mediterranea, anche nelle sue versioni più brulle, non c'è più. Siamo circondati da un cielo dai colori nuovi, sempre alimentati da qualche nuvola, anche se alta, dai colori cangianti del mare e della barriera corallina, dai colori della sabbia e dei cespugli delle isole.

Dopo le Dahak, anche se c’è un’isola proprio di fronte al Bab’ El Mendeb, nel mezzo dello stretto che separa l’Oceano Indiano dal Mar Rosso, è forse meglio per un po’ cambiare continente, e viaggiare più vicini all’Arabia, verso Aden, per poi affrontare una lunga navigazione verso Socotra.

Sarebbe bello, invece, poter seguire la costa africana, far scalo a Djbuti e poi in Somaliland, a Berbera e Bosaso, arrivare fino alla punta del corno e da lì compiere la breve traversata verso Socotra per poi ritornare a scendere lungo la lunga striscia di sabbia della costa somala, con qualche scalo fino ad arrivare alle isole Juba, che chiudono la costa meridionale della Somalia, dove finalmente la terra torna ad assumere i colori della foresta e delle piantagioni. Forse, compiere un percorso costiero – con scali nei porti – potrebbe essere meno difficile di quanto i giornali lasciano immaginare. Magari, assicurando la sicurezza sulla propria rotta con contatti frequenti con le autorità locali e entrando in contatto con le tante comunità somale nel mondo. La Somalia ha continuato infatti, dal 1992, ad essere un luogo di commercio fiorente, con decine di imbarcazioni di ogni genere che attraversano continuamente l’Oceano indiano.

Invece, seguendo i dettami di un buon senso meno fiducioso e maggiormente orientato da quanto si scrive sulla stampa internazionale, volendo continuare a scendere verso il Sud Africa si sarebbe ora costretti a una lunga navigazione in mare aperto, fino alle Isole Amirante o addirittura alle Seichelles, per poi ritornare verso l’Africa e atterrare nell’arcipelago di Lamu, con una storia lunga e che ha lasciato traccie delle culture africane, di quelle arabe e di quelle europee. Non è soltanto la natura a farla da padrona, di qui in poi. C'è anche il paesaggio di città in cui l'architettura araba si mescola con quella portoghese e quella britannica, assume tratti dalle culture africane e mescola i materiali e i colori più diversi: il legno (come nei porticati, nei terrazzi coperti e decorati e negli stipiti scolpiti), gli intonaci bianchi e colorati delle pareti, le colonne di cemento armato dei palazzoni socialisti, i mattoni rossi e le pietre delle fortezze dei vari dominatori temporanei.

Da qui si può riprendere una navigazione fatta di passaggi più brevi, superare il confine e andare a Zanzibar e Pemba - magari fermandosi in una delle piccole isole che circondano le più grandi – e poi, senza dover fare una traversata troppo lunga, raggiungere l’Isola di Mafia.

Un po’ più a Sud, sempre non lontano da terra, l’Ilha de Moçambique, la Ilha di Bazaruto (di fronte a Vilanculos) e poi continuando a mantenere una rotta verso il Sud, di fronte a Maputo, l’isola di Inhaca.

Decidendo ora di lasciare le acque del continente, si può navigare alle Comore e la vicina Mayotte; isole a poca distanza dal Mozambico e a poca dal Madagascar, con una storia anche recente travagliata e con una popolazione caratterizzata da grandi differenze, di lingua e di origine, nonostante la piccola estensione.

Accettando di spingersi un po’ più lontani, magari facendo scalo in Madagascar, sia all’andata, sia al ritorno, si potrebbe andare poi all’Ile de la Reunion.
Converrebbe a questo punto tornare nel golfo dello Zambesi e continuare con una navigazione costiera verso il Capo di Buona Speranza. Sospetto però che, da qui in poi verso Sud, sia necessario un certo coraggio, oltre ad una certa abilità e a un equipaggio adeguato.

Quasi di fronte a Città del Capo, ci si potrebbe fermare nella minuscola Robben island. Di nuovo ci si trova in un'ambiente diverso dagli altri, che richiede di essere interessati ai pinguini, alle prigioni e alle pagine più scure della storia sudafricana (a Robben Island furono tenuti prigionieri Nelson Mandela e molti altri leader nella lotta contro l’aparthaid).

Passando nell’Atlantico, e mettendo in conto di affrontare qualche burrasca, dopo aver rinunciato a una visione quasi lunare come quella che si prospetterebbe lungo costa, è necessario un lungo tragitto al largo della Costa degli Scheletri.

Se proprio si vuole rischiare, si può tentare un atterraggio a Luderitz, in Namibia, ma forse conviene andare fino a Benguela o persino a Luanda, senza cercare isole. Oppure ci si può addentrare nell’Atlantico verso Sant’Elena.

Ancora un po’ di mare aperto. Poi, finalmente, il golfo di Guinea.

Oltre a Sao Tome e Principe, qui ci sono almeno alcune isole in cui fermarsi: Annobón, Bioko, Corisco – quasi all’ingresso del fiume Gabon – e poi Malabo, non lontano da Douala.

Si è ormai alla foce del Niger e la costa continua da questo punto in poi, verso occidente, piena di piccole isolette e foci di fiumi.

Sospetto non sia una zona semplice per viaggiare: si mescolano insieme grandi città, povertà e estrema ricchezza, campi petroliferi, grandi porti, paesi che non riescono a uscire da condizioni di conflitto e così via. Non ci sono notizie di casi di pirateria frequenti verso barche da diporto, ma forse semplicemente perché non c’è un grande passaggio di barche da diporto. Oppure, invece, sono luoghi sicurissimi. Non ci è dato saperlo.

Miglia e miglia di navigazione in cui si deve mantenere l’attenzione e anche i venti potrebbero abbandonarci facilmente, vista la vicinanza dell’Equatore.

Le nostre piccole isole ricominciano un po’ a Nord, vicino a Konakri, nell’isola di Los. Di qui si può navigare fino a Fort James, in Gambia, e a Goréé, di fronte a Dakar. Tutte isole utilizzate come magazzino per tenere gli schiavi destinati all’esportazione in America.

Seguendo rotte antiche si torna al largo, verso l’arcipelago di Capo Verde, anche lui con una storia legata al traffico degli schiavi, ma con una popolazione e una lusofonia che proprio in questa storia hanno fondato una grande originalità.

Ormai il periplo è quasi finito, ma sono possibili ancora due o tre scali prima dello stretto di Gibilterra: le Canarie, le Azzorre e le isole di Madeira.