giovedì 24 giugno 2010

Sul fiume Trisuli

La pioggia mi ha svegliato. Finalmente sembra che i monsoni siano arrivati davvero. In campagna alcuni hanno già seminato e se non fossero arrivate le piogge avrebbero perso i semi e il lavoro. Mi chiedo se continuerà a piovere anche di giorno.
Alle 6 di mattina, quando esco, piove ancora in modo molto intenso. Nelle strade di Kathmandu, normalmente già affollate, ci sono pochi passanti. Un risciò mi passa vicino, offrendo i suoi servizi. Il passeggero sarebbe protetto da un telo di plastica, il conduttore invece è già completamente fradicio. Non accetto l’offerta, devo camminare solo per pochi metri.
Quando arrivo non c’è nessuno. Dopo un po’ arriva la guida che mi accompagnerà – Padma – con un risciò: lo carica con due kayak da fiume (sono abbastanza corti, per fortuna), poi – con poco realismo – mi chiede se voglio salire anch’io. Voltandosi ride, si accorge che non è rimasto che qualche centimetro.
A piedi, sotto la pioggia, andiamo a prendere il “Bus turistico” – passando sotto i porticati dobbiamo scavalcare la gente che dorme ancora, nonostante il fatto che sia domenica (cioè un giorno lavorativo). Il pulman non si dimostra molto turistico: è abbastanza sgangherato, ci piove dentro e tra tutti i passeggeri i turisti sono tre. Parte e si dirige verso Sud Ovest, uscendo dalla città si sale sulle colline, poi ci si inoltra in un’altra grande vallata. In fondo si vedono le montagne dell’Himalaya coperte di neve (e c’è anche un monte che svetta più in alto degli altri, quasi come una punta bianca verso il cielo, somiglia all’Everest nelle rappresentazioni popolari, ma guardando sulla carta l’Everest dovrebbe essere altrove).
Il pulmann impiega quasi 4 ore ad arrivare a destinazione, vale a dire di fronte a poche case tra la strada che accompagna nel suo corso il fiume Trisuli e il fiume stesso. A circa 100 km da Kathmandu. Prima si è fermato varie volte: per far fare pipì ai passeggeri (che con tranquillità si sono dispersi lungo il ciglio della strada, signore anziane ed eleganti accucciate insieme ai bambini) per fargli fare colazione (e la colazione in Nepal è il pasto principale, il che implica che ci si fermi quasi mezz’ora), per far scendere qualcuno o caricare qualcun altro.
All’arrivo troviamo l’altra guida, Bijay, con un kayak ancora più corto (sarà lungo meno di 2 m). Il tempo di lasciare la borsa nella casa, di togliersi i vestiti e di mettersi il salvagente, il casco e il gonnellino che chiuderà l’apertura del kayak e scendiamo al fiume. Ci troviamo su un’ansa tranquilla, anche se si sente il rumore delle rapide che scorrono a valle e a monte. Entriamo in acqua, mi fanno prendere un po’ di confidenza con il Kayak, poi mi mostrano come fare a rimetterlo dritto se si rovescia. Fanno provare anche me un po’ di volte. Invano. In realtà non cerco neanche di imparare, so benissimo che se mi capitasse di rovesciarmi sarebbe soltanto una perdita di energie cercare di raddrizzare la barca (anche perché il tutto si gioca su un gioco con i remi e un colpo di reni e certamente non sono proprio in forma). Mi fanno anche vedere come si “stappa” il kayak rovesciato e mi fanno provare a farlo, nell’acqua fangosa e poco trasparente del fiume.
E’ ora di iniziare la discesa.
Saltiamo la prima rapida: è troppo difficile, meglio iniziare a valle. Quindi la prima fatica è portare i kayak oltre il promontorio che fiancheggia il fiume. Subito dopo c’è un’altra zona di calma ed è li che entriamo in acqua. Ci aspetta un percorso di circa 30 Km.
Iniziamo con calma, ma le rapide non si fanno attendere e non sono piccole. Il fiume porta molta acqua. E’ quella di tre fiumi che scorrono dal Tibet (il nome del fiume non a caso ricorda il tridente di una delle divinità Indu) a cui si aggiunge via via, come si vede anche dalla strada, quella di innumerevoli fiumiciattoli che scorrono dalle montagne, che qui hanno un’altezza vicina ai 2500 m.
Oltre che con il rumore e l’acqua spumeggiante, le rapide si presentano come grandi onde che vengono addosso ai Kayak in modo disordinato, seguendo il gioco delle rocce e dei dislivelli che disturbano il normale corso del fiume. Si deve stare attenti, riuscire a prenderle più o meno di prua e soprattutto riuscire a tenersi in equilibrio, manovrando con il bacino e cercando di andare nella direzione giusta, che in genere non è quella che vuole il fiume. Per di più le rapide sono lunghe. O almeno a me sembrano tali.
Alla prima rapida mi rovescio.
Come previsto, non cerco di rimettermi dritto, stappo il kayak ed esco, tenendolo con una mano, mentre con l'altra mantengo la pagaia. La barca però si riempie d’acqua rapidamente e affonda quasi del tutto (un po’ d’aria resta comunque imprigionata e ce la fa a tenere “quasi” a galla il piccolo scafo di polietilene). Non ce la faccio a tenerlo su, lo lascio andare e nuoto nella direzione che mi indica la guida, fino a una zona calma dove si riesce a salire a terra. Lì mi portano il Kayak e si riprende la discesa.
Tratti di fiume più o meno calmi si trovano tra una rapida e l’altra. In quei tratti c’è il tempo di parlare, di guardare i villaggi che sono sulle pendici delle montagne, le coltivazioni a terrazza, i ponti tibetani attraversati dai bambini che vanno o tornano dalla scuola, le donne che lavano i panni sui massi tondi delle rive.
Poi si sente la corrente accelerare e quasi subito si sente il rumore.
E’ il momento di fare attenzione, di guardare la prima guida, per capire dove indica di passare, di portare il busto in posizione più eretta (io tendo ad appoggiarmi sullo schienale, portando il peso a poppa, e non si dovrebbe fare) e di iniziare a fare attenzione alle onde, all’equilibrio, alla direzione della corrente. Qualche rapida si riesce a passare, altre no: mi rovescio altre due volte. Non è un dramma. Ogni volta lascio il kayak perché sia recuperato dalle guide, e nuoto con la pagaia in una mano, a volte assicurandomi con l’altra a uno dei kayak delle guide.
Qualcuna delle rapide la passiamo tenendo due kayak affiancati, senza lavorare con le pagaie, lasciandoci trasportare dalla corrente e dai gorghi.
Ormai siamo scesi parecchio, siamo a bordo da quasi tre ore e io inizio a chiedermi dove arriveremo: passiamo sotto diversi ponti, per lo più in corrispondenza di villaggi o di templi. Inizio anche ad essere stanco: non alle braccia e alle spalle (anche se poi nei giorni seguenti i dolori mi renderanno consapevole degli sforzi), quanto piuttosto alle gambe e ai muscoli addominali, che vengono utilizzati continuamente per mantenere il legame con il Kayak.
Di fronte a noi c’è una rapida abbastanza violenta, soprattutto da una parte. La guida mi indica di andare dall’altra parte del fiume, dove la corrente sembra un po’ meno agitata dalle rocce del fondo. Ci riesco e riesco a tenermi su.
Il fiume però accelera e la guida mi fa segno di tornare più vicino all’altra riva: in sostanza di tornare indietro. La corrente però ormai è violenta e mi trascina nelle rapide, cerco ancora di attraversare, un po’ con la forza delle pagaiate, un po’ cercando di utilizzare la stessa forza del fiume. E’ un brutto gioco però: se attraverso mi metto di traverso alla rapida e non riesco a tenere l’equilibrio, se scendo giù dritto finisco nel punto in cui la corrente è maggiore e le onde sono più violente. Non so bene cosa fare e proprio questo forse mi fa vedere tardi un’onda: mi rovescio di nuovo. Lascio andare il kayak. Mi si avvicina una delle guide e mi attacco alla maniglia della sua poppa. Cerca di portarmi fuori dal flusso della corrente, ma non ce la fa. Si rovescia anche lui.
La seconda guida viene in mio aiuto, mentre l’altra scorre giù nelle rapide. Di nuovo attaccato alla poppa, cercando di spingerla anch’io, arrivo fino a una zona calma. Lì vengo lasciato. Salgo sulla riva e con la pagaia ancora in mano mi arrampico tra le rocce per arrivare a valle delle rapide: si deve superare un altro “promontorio”, piuttosto alto. Arrivo a valle del promontorio, sulla riva: l'acqua è calma vicino agli scogli, ma violenta appena si esce dalla loro protezione. La riva fa una curva, con una parete di roccia, probabilmente le guide sono lì dietro. Mi chiedo se ce la faranno a risalire con i due kayak, per venirmi a prendere. Non mi va molto di scalare la collina in mezzo ai cespugli, con sotto le rocce e il fiume.
Mi chiamano con il fischietto. Aspetto ancora, poi uno dei due fa capolino, con il suo casco bianco, dalla parete di roccia e mi fa segno di raggiungerlo. Mi mostra un ciglione da utilizzare come passerella: non mi piace troppo, preferirei scendere nuotando. Mi viene a prendere a metà strada e mi dice che è meglio non scendere in acqua. Lo raggiungo, sempre con la pagaia in mano. Lui è lì sulla riva, tra i sassi, con i due kayak, ma senza pagaia. L’altra guida è andata avanti.
Leghiamo i kayak, poi lui mi indica come attaccarmi alla prua del suo: appeso con le mani alla maniglia di prua e con le gambe avvolte attorno allo scafo, la testa a fare da rostro o da polena. Avendo perso la pagaia siamo costretti a usare un solo kayak: probabilmente in questo modo (piuttosto improprio) per lui è più facile governare e scendere tenendosi al centro del fiume. Non posso far altro che fidarmi. Porto i kayak a nuoto dove l’acqua è un po’ più alta e poi mi metto in posizione. Cerco di restare rilassato e di non sforzare i muscoli se non quando è necessario. Arrivano di nuovo le rapide, non le vedo ma sento l’accelerazione e il rumore. Poi sento le onde, che mi vengono sopra la testa, cerco di prendere il ritmo, per respirare evitando di bere. Non c’è un ritmo. Le onde sono disordinate e il kayak cerca di tenergli fronte. Ogni tanto respiro, ogni tanto nella bocca entra l’acqua del fiume. Poi la rapida finisce e il fiume diventa tranquillo, anche se resta veloce. Posso muovermi, tenermi con una sola mano, lasciar pendere i piedi. Parlare. Non dura molto: presto arrivano altre rapide e poi altre ancora.
Ci avviciniamo a un altro ponte sospeso. Io intanto inizio ad avere freddo e ad essere un po’ stanco. Quasi come se se ne fosse accorta anche la guida ci dirigiamo verso una riva. Siamo arrivati: la guida mi fa segno che posso lasciare il kayak. Un po’ nuotando, un po’ mettendo con cautela i piedi in basso per vedere dove c’è sabbia mi tiro dietro anche i due kayak.
Siamo a terra.
Finalmente mi tolgo il casco, che attacco assieme al gonnellino al salvagente. Ora non ci resta che portare i kayak fino al ponte: c’è una parete abbastanza ripida, ma con un sentiero e qualche scalino. Saranno almeno 50 metri. Intorno a noi si è formato un gruppetto di bambini. Ci aiutano portando la pagaia, mentre per i kayak non c’è niente da fare. Dobbiamo portarli fin su da soli.
Con un po’ di fatica e un po’ di fiatone ce la facciamo. Attraversare il ponte poi è semplice: dopo la salita un ponte che si muove sotto i nostri piedi, ma che è prima in leggera discesa e poi in leggera salita sembra il più tranquillo dei percorsi.
Sul ponte troviamo ad attenderci l’altra guida: è scesa più a valle e a trovato una macchina che ci riporti alla base. Il viaggio sul fiume è finito. Torniamo alla base su un pick up che oltre che dei nostri kayak è carico di vino. In Nepal cresce l’uva (forse un po’ più aspra della nostra) e alcuni produttori hanno iniziato a fare anche il vino. Non ho il coraggio di assaggiarlo.

venerdì 11 giugno 2010

Kathmandu

Ormai sono da qualche giorno a Kathmandu. Lontano dal mare, ma vicino ad alcuni grandi fiumi (anche se le acque dei tre fiumi che si uniscono nellla città - Vishnumati, Bagmati e Hanumonte - nel tratto in cui passano tra Kathmandu e Patan sembra uno stagno maleodorante, con le rive su cui si addossano spazzatura, piccoli slum e anche un po' di vacche).

Le prime fotografie (come al solito fatte con il telefono, dall'automobile in movimento, tra un incontro e l'altro) possono essere viste alla url seguente:


Nei prossimi giorni, progressivamente, ne saranno aggiunte altre.

mercoledì 9 giugno 2010

Tevere





Mentre PatuPatu veleggiava tra Anzio e Fiumicino (andata a motore per la mancanza di vento, ritorno quasi sempre a vela, notte in rada), abbiamo sperimentato la canoa sul fiume. Dopo aver fatto un giro sul battello elettrico del Parco del "Tevere Farfa" a Nazzano (www.parks.it/riserva.tevere.farfa/), scoprendo un ambiente ricco di vegetazione e di animali - uccelli, tartarughe, nutrie e cinghiali - a due passi da Roma, siamo tornati a monte per qualche km fino al pontile che si trova sotto Torrita Tiberina.

Il fiume è quasi fermo, tanto da permettere di pagaiare in sicurezza anche ai bambini, e l'acqua è relativamente pulita (anche se guardando il colore non si direbbe) e piena di pesci. C'erano anche gli uccelli - piccoli gruccioni, provenienti dal Madagascar, e enormi cornacchie - e i pescatori. Se fosse stato più tardi ci sarebbero stati anche altri animali.

Era una prova e ci siamo accontentati di pochi giri a breve distanza. La prossima volta invece scenderemo il fiume fino ai margini della "riserva integrale di Nazzano".