martedì 7 ottobre 2008

Everglades






Le Everglades sono considerate normalmente paludi. In realtà non è così. Si tratta, piuttosto, di un flusso d’acqua che ha origine nel lago Okechobee e che scorre fino al Golfo del Messico.
Un vero e proprio fiume, in origine senza argini, ma poi limitato dalle opere di canalizzazione e di bonifica realizzate per rendere coltivabile e vivibile gran parte del territorio della Florida.
Ormai da qualche decennio esiste però la preoccupazione di ricostruire almeno parzialmente le condizioni originarie delle Everglades, anche per la ricchezza biologica che caratterizzava quest’area.
In uno spazio relativamente piccolo si trovano infatti numerosi ecosistemi, da quelli di mangrovie e di posidonie della Florida Bay, a quelli degli estuari, alle pinete agli “hardwood hammocks” (che costituiscono anche l’habitat del mogano che per un lungo periodo è stato una delle principali attrattive dei Florida Keys), dalle praterie immerse e ai “cypress system” (http://fl.biology.usgs.gov/Center_Publications/Fact_Sheets/everglades.pdf ).
Al centro dell’opera di ricostruzione c’è l’Everglades National Park, dove ci siamo diretti lasciando i Florida Keys.
Il parco ha tre entrate. La prima è lungo la US 41, il cosiddetto “Tamiami Trail” che da Miami porta a Naples, sul Golfo del Messico; la seconda è a Everglades City, una cittadina affacciata sul Golfo, da cui è separata soltanto da centinaia di isolette coperte dalle mangrovie e chiamate “Tenthousend islands”; la terza più a Sud, quasi nel punto più meridionale della Florida a nord dei Keys, in una località chiamata Flamingo. Da Flamingo si può navigare lungo la costa, tra le isole di mangrovie e di sabbia, o risalire i corsi d'acqua che vanno verso Nord-Est, fino al centro delle Everglades.

E’ proprio a Flamingo che andiamo una volta usciti da Key Largo, sotto le piogge torrenziali che accompagnano l’arrivo di Gustav appena un po’ più a ovest sul golfo.
L’ingresso si raggiunge dopo aver lasciato la strada principale, ma si rischia di perderci: noi ci siamo trovati di fronte al penitenziario della Florida, che è nel bel mezzo di uno dei posti più pieni di zanzare dove io sia mai stato. Dopo un po’ di ricerche comunque abbiamo raggiunto l’ingresso del parco. Da lì una strada di circa 20 miglia conduce fino al golfo del messico, a Flamingo, dove secondo le guide si dovrebbero trovare un visitor center, un motel, un campeggio e la possibilità di noleggiare barche e canoe.

Quando arriviamo, sempre sotto la pioggia, basta aprire per un secondo un finestrino per far entrare un nugolo di zanzare. Le persone che camminano sotto la pioggia indossano sotto il cappuccio delle giacche a vento dei cappucci-zanzariera che proteggono il volto e anche nel visitor center la maggior parte dei prodotti in vendita sono zanzariere e repellenti per le zanzare.

Un po’ sforacchiati, ci facciamo coraggio e scendiamo dalla macchina. Oltre che da qualche decina di punture siamo premiati dalla vista di tre coccodrilli americani, che placidamente nuotano nei canali e tra le mangrovie, a pochi metri dalle barche ormeggiate.
La ragazza che lavora nel visitor center ci informa che il motel non c’è più: l’uragano Andrew, oltre dieci anni fa, lo ha spazzato via e da allora non è stato ancora possibile ricostruirlo con i finanziamenti federali. Andare a dormire in tenda sarebbe possibile, ma certo con il vento e la pioggia che ci sono non sembra la scelta più opportuna.

In breve, dopo un primo assaggio delle Everglades torniamo indietro. Passiamo la notte in un motel sulla US1, il giorno dopo riproveremo.
Quando ci svegliamo il vento e la pioggia sono più intensi ancora. Le palme si piegano e ogni tanto perdono qualche ramo. Il piazzale di fronte alle palazzine del motel è spazzato dal vento e allagato da una decina di centimetri di acqua.

Dopo un’ora però la pioggia inizia a cadere con meno forza. Saliamo in macchina e andiamo, stavolta puntiamo al Tamiami Trail, costeggiando la riserva dove si trovano gli ultimi Seminole, decimati dopo una delle più violente "guerre indiane" e le rivolte della fine dell'800.

L’ingresso che si trova sulla US 41 è chiamato “Shark Valley”, non perché ci siano squali d’acqua dolce, ma perché ci passa lo “Shark River” che finisce nel Golfo. Lungo la strada il tempo migliora, le nuvole nere restano ma la pioggia smette e anche il vento.
Un po’ prima del parco inizia il territorio indiano della riserva Miccosuckee, che si trova ai suoi confini settentrionali. Per primo, appare l’enorme edificio del casinò gestito dalla tribù, poi iniziano a comparire a fianco alla strada i chioschi che offrono giri in airboat sulle Everglades, ai confini del parco.

Decidiamo di fare un giro anche noi, da un chiosco gestito direttamente dalla tribù indiana. Il giro dura 30 minuti, compresi 15 minuti di pausa in un villaggio indiano su Chickee (cioè su palafitte protette da una tettoia di erba), abbandonato, visto che siamo in bassa stagione.
Gli unici abitanti del villaggio sono tre o quattro alligatori che se ne stanno a poca distanza dai vialetti di passaggio tra una palafitta e l’altra. Cartelli informano che non si tratta di alligatori “addestrati”. Di conseguenza non bisogna cercare di avvicinarsi, né di nutrirli o di toccarli. In tutta l’area delle Everglades, questi cartelli sono molto frequenti, come se i visitatori abitualmente vedendo un alligatore provassero uno stimolo inarrestabile ad andare a toccargli la coda (ma forse è così).
15 minuti sull’airboat sono più che sufficienti. Scivolando sull’acqua, sull’erba e sulle ninfee, il marchingegno fa un rumore terribile, che i tappi nelle orecchie non riescono minimamente a fermare.
Il giro basta però a darci un’idea dell’ambiente: una larga distesa di acqua, all’interno della quale cresce un’erba lunga e rada – che ricorda un po’ la prateria - e dalla quale di tanto in tanto si innalzano “isolette” con alberi di diverso genere.
Una visione un po’ migliore delle Everglades ci aspetta nel parco. Prima però ci fermiamo a mangiare nel ristorante gestito dalla Tribù. Per non smentirsi, Paolo ordina la carne di alligatore. I piatti sono enormi, non si riesce a mangiar tutto. Usciamo dal ristorante, quindi, con una grossa doggy bag piena di bistecchine fritte di alligatore. Intanto il tempo si è rimesso al bello, anche se all’orizzonte le nuvole restano minacciose.
A “Shark Valley” c’è un percorso di una decina di km attraverso la prateria immersa, si può percorrere in bicicletta, a piedi o su una specie di autobus, accompagnati da un ranger. Visto il caldo, le nuvole e le zanzare che anche durante il giorno non danno tregua scegliamo la terza opzione. In due ore vediamo ancora un numero infinito di alligatori, di ogni dimensione (e impariamo che a Shark Valley non ci sono coccodrilli, ma solo alligatori; infatti, mentre i secondi vivono in acqua dolce i primi vivono in acque salmastre e quindi si trovano solo sulla costa), vediamo molti aironi di diverso tipo e i diversi tipi di ambiente. Nonostante la grandezza (due volte il Lussemburgo) il parco è minacciato da erbe infestanti che sostenute dalle acque ricche di nutrienti drenate dai terreni agricoli, tendono via via a sostituire le piante originali delle Everglades, che richiedono acque molto più pulite. Non si tratta soltanto di un problema estetico, mentre le piante tradizionali offrono l’ambiente necessario alla crescita degli animali tipici dell’area, e in particolare di alcuni pesci, le piante e le alghe infestanti rubano loro l’ossigeno dall’acqua e ne comportano la progressiva eliminazione.
Finita la visita è ora di riprendere il Tamiami Trail fino a Everglades City e magari un po’ oltre, fino al villaggio di Chokoloskee, che da il nome alla baia delle diecimila isole. La stessa Everglades City, quando arriviamo, non ha proprio l’aspetto di una metropoli: alcune strade con case a uno o due piani abbastanza sparse, una o due chiese, un faro, un edificio pubblico. Dovunque, di fronte alle case, lungo le strade, lungo il fiume, barche. Chokoloskee è ancora meno urbana: casette, trailers e barche. Sulle rive della baia. Cerchiamo invano un posto dove mangiare e dormire. Non c’è e le poche persone che abitano il luogo sono in chiesa.
Finalmente troviamo un pescatore che riordina la sua barca, che ci consiglia di tornare a Everglades City. E di corsa. In questo periodo c’è soltanto un albergo aperto e non è detto che abbia posto.
Torniamo indietro, al Captain’s Table Motel il posto c’è (anche se è l’ultima stanza disponibile). A fianco c’è anche l’unico ristorante aperto, all’interno del vecchio magazzino ferroviario.
Quando entriamo nel ristorante per gli standard locali è già molto tardi, ma veniamo accolti con gentilezza. Oltre a noi ci sono un po’ di famiglie del luogo e poi gruppetti di uomini, con gli stivali e i berretti da pescatore, o con la tuta mimetica e l’attrezzatura da cacciatore.
Everglades City non è soltanto la sede di uno degli ingressi al parco nazionale, è anche – forse soprattutto – il luogo da cui molti partono per battute di caccia al cervo o di pesca nelle acque delle Ten thousend Island.
Acque pescose, come dimostra la sorpresa del giorno dopo: un gruppo di delfini che caccia e che gioca al confine tra le acque “interne” e quelle dell’oceano. Un ranger spiega che spesso non si riescono a vedere, ma non si allontanano mai troppo: le acque sono troppo ricche di pesce per migrare altrove. Neanche stavolta, invece, riusciamo a vedere i lamantini che popolano queste acque, protetti dalle isole e dalle mangrovie.
Everglades City non offre molto più di questo. Oltre all’albergo, al ristorante e all’ingresso del parco, ci sono soltanto un supermercato, un distributore di benzina e un negozio di attrezzature per la pesca. Tutti gli altri esercizi sono chiusi. A noi però va bene così, tanto che decidiamo di non tornare a Miami, ma di restare lì anche l’ultima notte negli Stati Uniti.

La mattina dopo, con calma, riprendiamo la macchina e percorriamo tutto il Tamiami Trail fino alle strade di Little Havana, poi giriamo e ci dirigiamo all’aeroporto. Il viaggio è finito.

1 commento:

tanya ha detto...

Un luogo che conosciamo per i tanti film e serial ambientati lì. Certo che le zanzare sono davvero tante, mi sa che non fa per me anche se mi piacerebbe vedere da vicino gli alligatori e gli aironi.