giovedì 25 settembre 2008

Pesca con tornado






Di ritorno dalle Dry Tortugas, dopo una mattina a curiosare tra le gallerie d’arte e tra i quartieri meno turistici – vale a dire i progetti di edilizia popolare – di Key West, abbiamo ripreso la US 1 verso Nord.
Non abbiamo una destinazione definita.
Curiosiamo un po’ qua e un po’ là, ma poi – spinti anche dal fatto che sia Cristina sia Paolo sembrano non star bene – decidiamo di tornare a Key Largo, nello stesso motel dove siamo già stati.
Il fine mai dichiarato della fermata a Key Largo è quello di andare a pesca.
Non vogliamo affittare un potente motoscafo per pescare i marlin, ci basta salire su una delle barche che portano gruppi di persone a pescare al largo (e che se hanno fortuna tornano anche con i marlin o i mahi mahi, oltre agli snapper e agli altri pesci che vivono presso il fondo).
Per tre volte andiamo inutilmente al porto da cui partono le barche per il "party fishing" a cercarne una.
Il maltempo che accompagna l’arrivo dell’uragano Gustav, che dopo esser passato su Cuba è ormai diretto verso la Mississipi, Luisiana e Texas, si fa sentire anche qui da due giorni e nonostante sia il fine settimana successivo al Labour Day c’è poca gente nei Keys e le barche restano senza clienti e non escono in mare.
Però le sere sono magnifiche. Nel buio si vedono i fulmini che illuminano il Golfo del Messico, squarciando il manto di nuvole scure che è all’orizzonte anche più volte in un minuto.

Dopo due giorni, la domenica mattina, finalmente troviamo una barca che esce: è uno scafo di alluminio di quasi 20 metri, insieme a noi ci sono un cubano sui quarant’anni accompagnato da due ragazzi e da un voluminoso set di canne e attrezzi da pesca e quattro indiani, un anziano, un uomo adulto e due bambini. Anche noi siamo quattro, Simonetta, Cristina e Paolo (che hanno ripreso le loro energie) e io.
Appena saliti in barca si nota la scritta: "linguaggio scurrile, bevande superalcoliche e GPS non sono consentiti".

Da ormai parecchi anni lo sfruttamento dei luoghi di pesca più usuali ha spinto molti skipper dei Florida Keys a fabbricarsi le proprie riserve private, non segnate sulle carte: si imbarcano su una barca una carcassa di automobile e un po’ di copertoni usati, si va al largo e si gettano in mare, segnandosi la posizione, così creando scogli e barriere artificiali che in pochi mesi sono coperti di vegetazione e ricchi di pesce. I luoghi, ovviamente, sono tenuti segreti agli altri pescatori.

Nel nostro caso – forse anche per le condizioni meteo che non sono proprio ottimali: scrosci di pioggia violenta si alternano a pochi momenti di sole, il vento soffia intenso da un paio di giorni, l’onda è ormai formata e si vede anche un po’ di schiuma – la barca non si dirige verso un luogo lontano e invisibile. Si limita a far rotta verso la barriera corallina, a 7 miglia da terra.

Appena usciti dal porto canale, il cubano mette in acqua la lenza, come esca ha un polipetto di gomma gialla lungo una ventina di cm. L’amo sarà lungo almeno 4 o 5 cm. Passa solo qualche secondo e la canna si piega. Il cubano la prende e lascia andare il filo, poi lentamente, facendo forza anche con la schiena, lo recupera. E’ un grosso barracuda, lungo più di un metro.

Quando è arrivato sotto la poppa della barca, che intanto ha rallentato, non lotta più, ma è ben vivo. Viene tirato a bordo con un gancio e messo dentro una ghiacciaia, poi il filo viene tagliato e viene data a tutti la proibizione di andare a guardare il pesce, che continua a dibattersi. Un morso lascerebbe un bel segno.

Si riprende la navigazione, ma non abbocca più nessun pesce, nonostante il cubano cambi di tanto in tanto l’esca.

Siamo quasi sulla barriera quando i motori vengono fermati e si dà fondo all’ancora (una specie di grappino autocostruito). La barca rolla con violenza.

Vengono distribuite le canne e le esche e tutti si distribuiscono intorno alla barca. I pesci abboccano in quantità. Ogni pesce tirato a bordo (sono soprattutto snapper e cernie) viene misurato e se non rispetta le dimensioni minime previste rigettato in mare. La pesca continua per un po’. Il cielo intanto diventa sempre più scuro.

A un certo punto, dall’orizzonte inizia ad avvicinarsi velocemente una grossa nuvola nera. Da lontano sembra un cumulo, ma via via che si avvicina e si vede il suo effetto sull’acqua diventa evidente che è un tornado. Pochi secondi e ci prende in pieno: la barca nonostante la sua stazza sbanda violentemente, tutti gli oggetti che non sono fissati vengono sollevati e portati via (ma per fortuna quasi tutti ricadono a bordo), le persone che non sono in luoghi protetti o non hanno un appiglio a portata di mano cadono.

Il tornado, come arriva, se ne va. E’ durato solo qualche secondo. Si è lasciato dietro però un mare scuro e onde sempre più grandi.

Il capitano vorrebbe spostarsi su un altro luogo di pesca (stavolta penso proprio uno “privato”) ma il mare si fa sempre più grosso. Alcune persone iniziano a mostrare le faccie livide per la paura e per il mal di mare. Meglio tornare.

martedì 16 settembre 2008

Dry Tortugas






Il porto vecchio di Key West la sera è affollato. I bar e i ristoranti sono pieni di avventori. Le barche ormeggiate sono oggetto di sguardi e a volte di sogni: i grandi catamarani che durante il giorno hanno portato i turisti a fare il bagno sulla barriera corallina, le barche per la pesca d’altura, due grandi golette che aspettano qualcuno che le noleggi. Sono molte le barche da lavoro. che mostrano la loro fatica e a volte la loro età, ma promettono anche navigazioni in un mare ricco di vento e ricco di vita.

La mattina presto invece il porto è quasi deserto. Sulla banchina a cui è ormeggiato il catamarano che porta alle Dry Tortugas ci sono soltanto il capitano e il suo equipaggio. In tutto due o tre persone, abbronzate, maglietta e bermuda.

Quando arriviamo, con l’automobile carica come un uovo, accolgono i nostri bagagli e li caricano a bordo con un sorriso. Sul catamarano non c’è molto posto. Ce n’è abbastanza però, per accogliere 15 galloni di acqua (6 piccole taniche), due borse morbide (una di pinne e maschere per lo snorkeling, l’altra con i vestiti) e una cassa rigida (il cibo: scatolame, pane, verdure). Non sono ancora le 7 di mattina. E’ ancora presto per imbarcarsi, cerchiamo un caffè. L’unico già aperto è una specie di grande magazzino, lungo la banchina di legno. Lo si riconosce perché al parapetto della banchina sosta un gruppetto di persone, tutte appoggiate e ancora un po’ assonnate, guardando l’acqua sporca del porto e le barche ormeggiate, con un grosso bicchiere fumante di polistirolo in mano. In qualche minuto anche noi facciamo parte del gruppo.

Ormai è ora di imbarcarsi, ma non c’è troppa fretta. Sul catamarano stanno salendo i passeggeri, ma non sono molti. Il catamarano, chiamato senza troppa fantasia Fast Cat, in fotografia sembra un po’ fantascientifico, con i suoi scafi stretti per infilarsi nelle onde e la sua cabina chiusa, da vicino invece mostra i segni di una barca da lavoro, con le rifiniture un po’ grossolane, che certo si adatterebbero poco sia a uno Yacht, sia a una barca del futuro. Ci sistemiamo a poppa, sul piccolo ponte da cui si accede alla cabina. Soprattutto Simonetta e io non abbiamo nessuna voglia di passare ancora qualche ora nell’aria condizionata.

“Fast Cat” lascia il suo ormeggio velocemente ed esce dal porto. Fuori il mare è calmo. A percorrere le 70 miglia che separano Key West da Garden Key, la più grande delle Dry Tortugas, il catamarano impiega poco più di due ore, con una navigazione veloce e tranquilla, lungo un canale segnalato da piccole boe.

Le Dry Tortugas (http://www.nps.gov/drto/ ) sono tre piccole isole: Garden Key, l’unica accessibile facilmente, sulla quale si trova Fort Jefferson (una fortezza ottagonale, costruita in mattoni dalla metà del XIX sec. e poi abbandonata all’inizio del secolo successivo e dichiarata negli anni ’30 parco nazionale); Bush Key, una bassa striscia di sabbia, con un po’ di vegetazione, quasi attaccata alla maggiore, che costituisce un luogo di nidificazione per le sterne e le fregate e sulla quale per questa ragione non è possibile accedere; Loggerhead Key, su cui si trova un faro, a circa tre miglia da Fort Jefferson.

A Fort Jefferson si arriva con la propria barca, con uno dei due catamarani autorizzati a portarvi i turisti - Fast Cat e Yankee Freedom – o con un piccolo idrovolante. I catamarani arrivano sull’isola a metà mattina (quasi simultaneamente, intorno alle 11) e riprendono il mare alle 14,30. I visitatori giornalieri seguono un rigido programma: all’arrivo vengono guidati in una visita al Forte, poi c’è uno spuntino sulle barche, quindi tempo libero per fare snorkeling, fermarsi sulla spiaggia, ripararsi dal sole nel piccolo museo che è dentro il forte o comprare qualcosa nel negozio del museo. Alle 14,00 si ricominciano le operazioni di imbarco. L’idrovolante invece porta tre o quattro persone, le lascia e poi torna a prenderle una o due ore dopo.

Per tutti, non è possibile attraccare alla banchina di Garden Key dopo il tramonto.

Così, nel pomeriggio, diventiamo i padroni dell’isola. Oltre a noi (Cristina, Paolo, Simonetta e io e Luca, Chiara, Monica e Franco) e alle nostre tre tendine c’è solo un’altra tenda, con una coppia che ha già passato una notte su Garden Key.

Le tende sono sistemate tra gli alberi dell’unico boschetto presente sull’isola. Qualche altro albero è dentro il forte, che però alle 17 chiude (anche se solo virtualmente). Dentro il forte ci sono anche l’ufficio e la residenza di alcuni ranger, a cui si può far riferimento nel caso di qualche emergenza.

Di fatto i ranger si vedono poco: un ranger accoglie chi arriva per campeggiare, indica i luoghi in cui si possono sistemare le tende e illustra le poche regole riguardanti il campeggio (non dare cibo agli animali; non toccare e non prelevare alcunché, portar via tutto ciò che si introduce sull’isola, mantenere cibo e spazzatura fuori della portata dei topi che popolano l’isola e che, insieme ai paguri, trovano rifugio tra gli alberi uscendo di notte), un altro fa un giro dell’isola la sera a piedi e un terzo fa un giro dell’isola la mattina.

Il pomeriggio trascorre nuotando intorno all’isola, osservando pesci, conchiglie, anemoni e così via tra le teste di corallo che la circondano. Oltre ai pesci vediamo una tartaruga. Tra i pesci, oltre agli onnipresenti sergeant fish, ai pesci chirurgo, a qualche pesce pagliaccio, a molti pesci angelo, agli hogfish, ai pesci pappagallo e agli snapper e a qualche cernia anche alcuni barracuda, sia piccoli e dall’aspetto quasi inoffensivo, sia grandi e minacciosi, e alcuni grandi “tarpons”.

E’ quasi sera quando si sente il rumore di un grosso motore diesel. E’ una barca da pesca che si avvicina. Su una delle guide c’è una nota (assai improbabile) circa il fatto che i pescatori cubani spesso si avvicinano a Garden Key ed è possibile comprare da loro pesce e aragoste. Quando vedo che la barca attracca alla banchina di ingresso al parco inizio ad avvicinarmi: magari ciò che riferisce la guida è vero. Non è una barca cubana.

E’ una barca per la pesca delle aragoste che viene da Key West. Ancora non sono finite le manovre di ormeggio che un uomo con un cane salta giù: sono in mare da giorni e semplicemente sono venuti a sgranchirsi le gambe. Non tutti scendono a terra. Sbarcano soltanto un giovane pescatore che porta il cane a fare una passeggiata e un secondo pescatore: è coperto da tatuaggi, non soltanto sulle braccia e sul torace, ma anche in faccia.

Un’ancora blu è disegnata sul viso, con le marre che si estendono sulle narici, il fusto che segue la linea del naso, il ceppo sull’arco sopraccigliare. I capelli biondi sono arricciati dal mare, così come la lunga barba un po’ caprina. Gli occhi celesti. Il petto muscoloso è coperto da una peluria riccia e scura, un po’ diversa dai capelli. I capelli biondi, sostiene, li ha ereditati dal padre – irlandese della South Carolina – il corpo peloso, invece, proviene dalla famiglia della madre – italiana di New York.

A bordo sono in cinque, compreso il capitano che non appare. Hanno 300 gabbie per le aragoste, ma ci sono barche che se ne portano dietro più di 1000. Sono fuori da cinque giorni e ancora per altri due rimarranno in mare. Non ci sono turni a bordo. Tutti lavorano o tutti riposano. La notte si fermano in rada presso qualcuna delle molte isolette che spuntano dal mare lungo la barriera corallina. La barca è di vetroresina con un motore che la spinge a 8 nodi. Mentre parliamo le luci della banchina e l’ombra creata dallo scafo attirano alcuni pesci. Me li indica.

Il primo è un grande barracuda, sarà lungo più di 2 metri. Poi arriva anche uno squalo nutrice, anche lui di grosse dimensioni: forse 3 metri forse di più. In realtà, di barracuda e squali nutrice ne abbiamo già visti (anche se un po’ più piccoli). La vera novità arriva un po’ dopo: due cernie giganti. Sono enormi: una sembra lunga più di 3 metri, l’altra è appena più piccola.

Intanto la banchina si è affollata. Bambini ed adulti sono affacciati a guardare i grandi pesci che nuotano tranquilli a poca distanza dalla superficie.

Il pescatore ci dice che la grande cernia peserà qualcosa come 1400 pound e che se si pescasse varrebbe più di 1000 dollari.

Il suo compagno getta in mare un grosso sgombro. La cernia non apre neanche la bocca, si limita ad aspirare la preda. La scena si ripete due o tre volte, poi il pescatore getta qualche pesce più lontano, a portata del barracuda, che intanto guarda minaccioso la cernia (ma non si azzarda ad attaccare).

Lo spettacolo non è finito. Uno dei pescatori tira fuori da un gavone una canna da pesca e la consegna ai bambini. Loro a bordo sono pescatori professionisti, spiega, e non possono pescare nel parco, ma i bambini possono, e infila nel grosso amo un pezzo di sgombro. La cernia non si cura minimamente dell’esca, che invece viene predata dai piccoli pesci che le nuotano intorno. L’esca viene cambiata, i pesci (alcuni sono snapper neanche troppo piccoli) la mangiano ancora, mentre le cernie restano immobili, muovendo soltanto, lentamente le pinne pettorali.

Il pescatore decide di puntare più in alto. Sull’amo arma uno sgombro intero e chiede ai bambini di lasciargli la canna. Di nuovo, come con un soffio, la grande cernia prende il pesce e resta presa. Non se ne preoccupa molto, scende più in profondità, mentre il pescatore lascia scorrere un po’ di filo, poi lo frena e lo blocca. La cernia sente che qualcosa non va. Inizia a far forza. E anche il pescatore. La canna si curva, poi si curva anche la schiena del pescatore. Tutti i muscoli guizzano: un po’ allasca la lenza, un po’ la recupera. Il gioco va avanti per qualche minuto. Il pescatore è bagnato di sudore e rosso per lo sforzo. La cernia si allontana. Intanto il sole inizia a tramontare. E’ il momento di smettere: la lenza viene bloccata. In un attimo si spezza; la canna si raddrizza; i muscoli si rilassano; un sorriso spunta in mezzo alla barba bionda, sotto l’ancora blu.

Il pescatore mette la canna nelle mani dei bambini, a loro a bordo non serve. Sorride ancora, poi salta a bordo. La prua è già libera, in un secondo scioglie il nodo che fissa la gomena alla bitta sul pontile e la barca da pesca rapidamente si allontana. Non si può rimanere attraccati al tramonte.

Ancorano in rada, a meno di di un miglio da terra, tra Garden Key e Loggerhead Key. La luce di stazionamento illumina il mare nella notte e fa sognare i bambini. Vorrebbero essere a bordo e vorrebbero restare sull’isola. Senza elettricità, con poca acqua, ma con il mondo attorno.

giovedì 11 settembre 2008

Le barche delle isole






Da Miami fino a Everglades City una costante è la presenza di barche. Ne abbiamo viste di ogni tipo.
Più numerose quelle a motore per la pesca d'altura (con motorizzazioni enormi) o per la pesca nelle “backwaters”, le acque basse e i canali tra le mangrovie: barche piatte, lunghe sui 5 metri, con motori di 100 – 150 hp, magari affiancati da un motorino elettrico, necessario per andare veloci e restare in planata proprio nei luoghi dove la profondità è minore e altrimenti la barca potrebbe toccare il fondo. Numerose anche quelle a vela, quasi tutte tra gli 8 e i 10 metri, dal disegno “classico” e con alberi con un solo ordine di crocette. Spesso con la deriva mobile o con la chiglia lunga “shoal draft”.
C'è anche qualche catamarano: catamarani di lusso (e barche europee) a Miami, catamarani autocostruiti o progettati per portare i turisti a fare snorkeling o a bere un Planter's Punch al tramonto, nei Keys.
Infine, ci sono i pescherecci. Le barche da pesca professionale – con le gabbie per le aragoste e con i palamiti per i grandi pesci – hanno, da lontano, un aspetto non troppo dissimile da quello delle barche per la pesca d'altura: la prua alta, la carena che è a V profondo a prua e poi si appiattisce in modo più o meno pronunciato a poppa, lo specchio di poppa piatto e a volte aperto. La differenza è maggiore se si guardano da vicino: le finiture sono grossolane, il ponte di poppa è più ampio, con un grosso verricello per il recupero di pesci e gabbie, il motore è un grosso diesel rumoroso che le spinge in dislocamento, con velocità sugli 8 nodi.

Per ogni barca un capitano. Sulle tante barche che praticano il charter quasi sempre ha alcuni tratti caratteristici: è abbronzato (ma sarebbe difficile non esserlo), ha un berretto da baseball o a larghe tese, ma soprattutto indossa gli occhiali da sole e ha un po' di barba. Un aspetto comune, quasi standard, un po' dovuto all'esigenza di essere visibili e di richiamare nella mente “Isole nella corrente” o i film tratti da “Avere e non avere”e da “Il vecchio e il mare”, un po' anche dovuto alle necessità. Le lenti polarizzate sono indispensabili per navigare “Bahama style” (cioè guardando i colori del mare, per capire che fondo c'è) e non affidarsi soltanto ai GPS cartografici. Molti sono in attesa. E' bassa stagione. I clienti sono pochi e intanto le barche continuano ad avere le loro spese, il prezzo del combustibile aumenta e c'è anche la vita quotidiana che aspetta, fuori del porto.

In qualche caso i comandanti hanno voglia di parlare e di raccontare delle loro navigazioni e della barca che possiedono al di fuori del lavoro (come è stato per il comandante di un catamarano per turisti, che ha raccontato del suo piccolo ketch e dei viaggi alle Bahamas, da fare lasciando Key Largo la sera, navigando al largo la notte e atterrando la mattina, con il sole che rivela i banchi di corallo sotto le onde). A volte invece il comandante rimane discosto e si vedono soltanto i marinai, come è capitato andando a pesca su una “party boat” chiamata “Sailor's choice” a Key Largo, o con la R.V. di Key West, una barca per la pesca delle aragoste, approdata per un'ora alla banchina di Fort Jefferson su Garden Key, nelle Dry Tortugas. Il tempo di toccare terra dopo cinque giorni di mare e di portare il cane dell'equipaggio a sgambettare un po', per poi ripartire prima del buio ed ancorarsi in rada (dal tramonto all'alba non ci possono essere barche ormeggiate al pontile). I marinai – pescatori erano quattro: uno nero, di lingua spagnola (cubano?) altri tre dall'Alabama e dal South Carolina.
La barba lunga, i capelli corti, con magliette e bermuda che avevano avuto periodi migliori, tatuati sulle braccia, sul torso e sulle gambe e, più nel personaggio di tutti gli altri, uno con un'ancora azzurra tatuata sulla fronte e sul naso, sotto i capelli rossi e su una lunga barba. A differenza del comandante, silenziosamente rinchiuso in cabina, lui ha una gran voglia di parlare e di scherzare, e lo fa con i - Luca, Paolo e Cristina – a pescare una cernia gigante, mostrando i muscoli tesi nello sforzo di resistere alla fuga del grande pesce attaccato all'amo, ricordando la sfida tra l'uomo e il pesce nello stile di Spencer Tracy.

Anche nei Keys qualche barca è li a far mostra di sè, magari appesa di fronte a una grande villa. La maggior parte però sembrano “in uso” e soprattutto sembrano fortemente legate a specifiche utilizzazioni. Questo comporta una grande diversificazione.

Non ci sono soltanto motoscafi e barche a vela buoni un po' per tutto, ma soprattutto a essere guardati dalle banchine dei marina (oppure, al contrario, trascurati dalla mancanza di tempo degli armatori). Ci sono barche per pescare in alto mare (carena a V, grandi motori, una cabina, posti per le canne, vasche per le esche, sedile per pescare, ... e nessun cuscino), barche per andare a pesca nell'interno (carena piatta, la coperta chiusa fin quasi a poppa, un grande motore che le faccia planare e dei motorini elettrici per muoversi tra le alghe senza far rumore), le barche per andare a fare il bagno, quelle per fare crociere alle Bahamas (double ender, per esempio), quelle per restare nella baia (shoal draft) e così via, fino ad arrivare alle strane forme di un catamarano che era ancorato a Key Largo proprio di fronte al nostro motel, con una panca che correva lungo l'intero pozzetto e un voluminoso scivolo a poppa, proprio a fianco della piccola ruota del timone. Ci sono anche le barche per abitarci: da Key Largo a key West si possono vedere decine di comode “houseboat” ormeggiate qua e là. Normalmente non hanno neanche il motore.
Guardando le barche si scopre un gusto dell'andar per mare che in Italia sembra raro e che non sembra legato all'esigenza di dimostrare che si è più o meno ricchi (come nel caso di un motoscafo che era ancorato in agosto all'Elba, chiamato “Because we can”) o più o meno raffinati. Così può capitare di incontrare una barca non cabinata (ma con due grossi motori) che per pescare si allontana di 90 miglia dalla costa, passando la notte in rada presso qualche isola semideserta.
L'idea che le barche servano a navigare piuttosto che a dimostrare altro si coglie anche nella diffusione di “discount” nautici (dove ci si fa vanto di costar poco, ma dove si trova tutto ciò che serve per navigare) e nelle forme di pubblicità dei charter diffusi in tutti i porticcioli, dove praticamente nessuno parla di sé in termini di “esclusività”.
Un altro elemento è evidente guardando le barche: che ci si trova in una condizione di crisi e che per molti il mito della propria barca si è rivelato insostenibile. Le barche in vendita lungo la US 1 e quelle nei cortili a fianco dei “banchi di pegno” sono numerose quanto quelle in mare.

martedì 9 settembre 2008

Delfini



La prima volta che ho visto un delfino è stato nella Baia di Guanabara, di fronte al ponte che da Rio de Janeiro porta a Niteroi. Forse, uno dei luoghi più inquinati del mondo. Eppure davanti alla prua di Mr.Ze’, la barca su cui ero, erano spuntate prima le pinne e poi i dorsi di un gruppetto di delfini. Poi di nuovo, mi è capitato di incontrare i delfini, nei momenti e nei luoghi meno prevedibili: la mattina all’alba, durante un trasferimento tra Ilha Bela e Angra dos Reis, sentendo prima il loro respiro e poi scorgendone le pinne quando ormai il mare iniziava ad essere illuminato; di pomeriggio a poche centinaia di metri dalla costa a Anzio; di fronte a Ostia e a Fiumicino durante la mattina.

Navigando con PatuPatu, c’è sempre qualcuno con gli occhi fissi alla ricerca dei delfini. Ma non si sono mai fatti vedere da nessuno dei membri dell’equipaggio: né nelle Isole Pontine, né nelle Isole Toscane e neppure in Sardegna.

In Florida è stato diverso. Abbiamo incontrato i delfini due volte: la prima in modo “organizzato” in un centro di studio e divulgazione sui cetacei a Key Largo, la seconda in modo casuale, tra le isolette del Golfo del Messico, non lontano da Everglades City.

Quando abbiamo iniziato a pensare a un viaggio nei Florida Keys, abbiamo iniziato navigando su internet e abbiamo trovato diversi centri che offrivano “Dolphin’s Swim”, la possibilità di nuotare con i delfini e di incontrarli in un ambiente controllato e in una situazione più o meno artificiale. La cosa non mi convinceva: anche soltanto vedere i delfini all’interno di un acquario o di un delfinario mi ha sempre fatto provare una sensazione strana. Quella di guardare, indesiderato, un prigioniero. Però, dall’altra parte, la possibilità di nuotare con i delfini era, soprattutto per i bambini, una prospettiva, forse non proprio “politically correct”, ma affascinante. Molto più di quanto non lo fossero quelle di vedere città nuove, di dormire in tenda o di immergersi tra i pesci della barriera corallina.

Così, era stata prenotata una “nuotata con i delfini” non strutturata: in un bacino naturale (ma chiuso) un incontro ravvicinato con alcuni delfini, senza nessun contatto diretto, a meno che essi – incuriositi - non si fossero avvicinati. Almeno, questo è quello che avevamo pensato. Al momento del pagamento ci siamo invece accordi che era stato prenotato un “incontro strutturato”, durante il quale – nello stesso ambiente e con l’assistenza di un istruttore – con i delfini sarebbe avvenuta una interazione diretta. Dopo qualche discussione abbiamo deciso di non cambiare.

Il 21 agosto, alle 15, siamo entrati nel “Dolphin Cove” a Key Largo: Cristina, Paolo, Luca (anche lui dodicenne, come Paolo), Simonetta e io. Incuriositi, contenti e intimoriti. Rapidamente, ci hanno chiesto di indossare dei giubbetti salvagente e poi ci hanno fatto salire a bordo di una barca dove, durante un piccolo giro nella baia, si è tenuto un briefing.

Dopo aver presentato la fisiologia dei delfini, un’istruttrice ha spiegato alcune norme di comportamento: i delfini sono liberi e considerano il bacino in cui si trovano loro, quindi – anche se è probabile che essi vengano ad incontrarci e a giocare potrebbe anche darsi che non lo facciano; i delfini sono sensibili e delicati, si devono evitare movimenti che possano produrre sensazioni di aggressione o addirittura lesioni; i delfini comunicano in diversi modi, ci guarderanno e vorranno essere guardati – a differenza di altri animali lo sguardo diretto non è considerato aggressivo, e così via.

Quando torniamo al bacino, in cui abbiamo già visto nuotare un gruppetto di delfini, siamo ancora più intimoriti di quanto non fossimo prima. E’ abbastanza evidente che, nonostante la presenza dell’istruttore e la “strutturazione”, si tratta di una situazione in cui noi – gli uomini – abbiamo una scarsissima capacità di controllo.

Per primi entriamo nell’acqua, in un golfetto circondato dalle mangrovie, Paolo, Luca e io (che dovrò anche cercare di capire e di tradurre le indicazioni che via via ci saranno date dall’istruttore, visto che la comprensione dell’inglese dei due ragazzi è molto sommaria). Siamo molto tesi. Veniamo fatti sedere su una piattaforma galleggiante, su cui si trova l’istruttore (o meglio l’istruttrice, visto che si tratta di una ragazza), con le gambe stese nell’acqua. Due delfini arrivano e si strusciano sui nostri piedi.

Poi entriamo in acqua. E inizia. I delfini ci coinvolgono in giochi, salti, spinte, carezze. Via via, acquisiamo un po’ più di tranquillità. Se noi sbagliamo o non seguiamo le indicazioni che ci vengono date, i delfini se ne accorgono e “correggono” i nostri errori. Prima vengono a farsi accarezzare, poi saltano, quindi ci schizzano, poi ci spingono e ci trainano, infine ci riaccompagnano alla piattaforma galleggiante. Ogni volta, dopo un gioco, tornano dall’istruttrice e ricevono un premio, a volte un pesce, a volte una frase o una carezza altre uno schizzo o semplicemente una risata.

Dopo di noi tocca a Simonetta e Cristina. Simonetta ha una faccia allegra, la cosa la fa ridere. Cristina (che ha otto anni) è tesissima. Anche lei dopo un po’ - dopo aver sentito la morbidezza della pelle, aver guardato gli occhi scuri e aver visto che non è lei che deve comandare, ma sono i delfini che guidano e conducono l’incontro – si rilassa e ride.

Quando usciamo siamo tutti molto stanchi.

E’ stata una esperienza strana. Come quella di incontrare un popolo completamente diverso, del quale non si condivide quasi nulla se non la consapevolezza di essere diversi e quella relativa ad alcuni comportamenti di conciliazione. Si può capire, dopo un incontro così, come possano essere vere le storie che raccontano di delfini che spingono sulle spiagge i naufraghi. E sembra di essere totalmente fuori del tempo. In un tempo speciale, come quello delle favole e dei miti, o dei racconti dipinti sui vasi cretesi.

L’incontro con i delfini del Golfo del Messico – tra le Ten Thousend Islands - è stato più “tradizionale”, meno diretto, ma altrettanto emozionante. Li abbiamo intravisti giocare sulla superficie del mare, ci siamo avvicinati e anche loro si sono accorti di noi. Hanno giocato ancora, ci sono venuti un po’ intorno e poi se ne sono andati. Poi, quando, la nostra barca ha iniziato a lasciare una scia, sono venuti a giocare sulle onde, saltando.

Ho provato a fotografarli, ma ci sono riuscito a malapena. I loro tempi non erano quelli dell’otturatore della macchina digitale. Questo secondo incontro è stato per i bambini ricco di sensazioni quanto il primo. Soprattutto, in questo, c’è stata la percezione della libertà e della casualità. I delfini c’erano perché stavano pescando da quelle parti (ricchissime di cibo) e hanno giocato finché ne hanno avuto voglia, poi sono andati per la loro rotta, mentre noi siamo tornati per la nostra.

lunedì 8 settembre 2008

Key Largo






Dopo tre notti a Miami, abbiamo lasciato la città. Di tanto in tanto c’è ancora qualche acquazzone, ma sono stati riaperti gli edifici e gli uffici pubblici, la US1 che porta verso Key West e i parchi.

Non lasciamo subito la città, prima – seguendo una guida turistica – ci fermiamo a Little Havana (cioè sulla Calle Ocho, South West, sulla parte urbana della US41, il cosìddetto "Tamiami Trail", che conduce attraverso le Everglades fino a Naples, sul Golfo del Messico), al Cafè Versailles.

Un ristorante tradizionale (che gestisce anche alcuni chioschi nell’aeroporto internazionale), che dovrebbe offrire cucina e caffè cubani di particolare pregio e dove pare vengano portati a far colazione i presidenti americani ospiti della comunità cubana (cioè soprattutto i conservatori).

Non mi sembra molto bello, né molto interessante: un capannone tra centri commerciali, brutti edifici e grandi spianate piene di automobili in vendita: due sale, con le pareti coperte da vetrate e i vetri sulla strada con una forma decorativa smerigliata sopra; le sedie di metallo con la seduta imbottita – di quelle che si trovano spesso nelle sale un po’ datate dei ristoranti e delle sale per conferenze degli alberghi di tutto il mondo - intorno a tavoli quadrati. I camerieri con noi parlano in inglese, tra loro in spagnolo. Il servizio è certamente il più lento e il meno attento che abbia visto negli Stati Uniti. Il caffè normale, i panini e le porzioni grandi (ma dove non lo sono a Ovest dell’Oceano atlantico?). Non riesco a capire perché sia stato segnalato e ricevo ancora una volta conferma che le guide per i turisti non sono una buona guida per me.

Dopo la pausa, un po’ forzata, sfidiamo il traffico per raggiungere la US1 e poi ci incolonniamo dietro le altre automobili. Tutti a 55 o 45 miglia all’ora, secondo le indicazioni dei cartelli stradali. Di fatto, una buona velocità per chi voglia guardarsi intorno.

Per un po’ non c’è molto da vedere: capannoni, centri commerciali, centri residenziali middle class; poi, si esce davvero (ma bisogna arrivare fino a Homestead) e inizia il verde ai lati della strada. E’ l’erba che cresce nell’acqua delle Everglades, che ci accompagna fino al ponte che porta a Key Largo, la prima e più lunga delle isole.

Sulla US1 c’è ancora poco traffico. La tempesta è passata da troppo poco tempo perchè il flusso turistico abbia ripreso la normalità (e perdipiù è un mercoledì di bassa stagione). Ogni tanto però superiamo o veniamo superati da qualche grosso pick up che rimorchia una barca.

La nostra intenzione originaria era quella di andare a dormire in tenda nel parco statale di Long Key, in riva al mare. Un po’ più a sud di Key Largo. Il campeggio nel parco però ancora non è riaperto. Così decidiamo di affidarci un po’ al caso e di cercare un motel. Uno dei tanti che affiancano la strada sia a destra, sia a sinistra, interrompendo la vegetazione che nasconde da una parte l’oceano aperto e dall’altra la baia. Dopo qualche chilometro dall’ingresso sull’isola vediamo il cartello del John Pennekamp National Park: il primo parco sottomarino aperto negli Stati Uniti. Una meta quasi obbligata già decisa da tempo. Invece di trovare l’ingresso del parco, che è alcune miglia più a Sud, troviamo il visitor center: una casetta di legno in stile caraibico con al lato un magazzino di attrezzature subacquee, sormontato da una testa di squalo da cui penzola un braccio. Ci fermiamo, alla ricerca di piantine e depliant e troviamo anche le indicazioni sui motel.

Il primo con due stanze libere non è lontano. Si trova al mile marker 99,5 (il Mile Marker 0 si trova a Key West) e si chiama Bay Cove Motel. Ci arriviamo ed entriamo. Un grande cartello che promette romantici tramonti, poi una statua di lamantino utilizzata come cassetta delle lettere e una piccola costruzione con animali marini dipinti, ci introducono in un vialetto di meno di cento metri, ombreggiato da alberi e palme da cocco, che finisce in riva al mare. Il cartello promette anche una spiaggia, che invece non c’è. Ci sono invece uno scivolo per mettere in acqua le barche, una banchina di legno, e alcune canoe.

Franco, il mio amico, è un po’ deluso. Si aspettava una spiaggia vera, con la sabbia bianca. Così andiamo a vedere un altro motel, a mezzo miglio di distanza. Più che di un albergo si tratta di un parcheggio di trailers e roulotte, che ha anche alcuni bungalows. La struttura è come quella del primo: un viottolo che arriva al mare, dove si trovano uno scivolo e un moletto. Stavolta però non ci sono gli alberi, ma soprattutto qui non c'è neanche l'ombra di una spiaggia.

In realtà, lungo i Florida Keys di spiagge "vere" non ce ne sono quasi in nessun luogo (fanno eccezione, in parte, il parco di Bahia Honda e il Fort Zachary Park a Key West): le coste dei Keys – sia dalla parte dell’Oceano, sia da quelle della baia e del Golfo del Messico - sono quasi completamente coperte di mangrovie, strappate via per far posto a pontili, scivoli o terrazze sul mare. Oltre le mangrovie c’è il mare con un fondale che resta sempre piuttosto ridotto, con il fondo sabbioso coperto di sea grass (posidonie ?), che offre nascondiglio e ossigeno ai pesci e nutrimento ai lamantini, con teste di corallo sparse qua e là, e isolette.

Il tutto non è molto soddisfacente per chi abbia in mente una spiaggia bianca tropicale, ma lo è molto di più per chi voglia pescare o osservare pesci e ambienti sottomarini. E – dalla parte della baia – è anche interessante per chi abbia una barca, che può essere lasciata all’ancora senza grandi preoccupazioni.

Dopo qualche altro sondaggio torniamo al Bay Cove Motel, dove prendiamo possesso di sue stanze. Ognuna con due letti matrimoniali, secondo uno standard diffuso. Forse legato al fatto che le famiglie americane quando viaggiano sono quasi sempre costrette a fermarsi sulla strada.

Ne saremo tanto soddisfatti da tornarci ancora: oltre alle stanze (che visto che hanno le finestre che si aprono permettono di sfuggire alla prigionia dell’aria condizionata), troviamo a nostra disposizione tavoli e fornelli da barbecue vicino al mare, canoe e canne da pesca. Appena arrivati i bambini entrano in acqua, circondati da pesci ago e da snapper di mezzo metro. Continueranno a starci fino a sera e per tutto il tempo in cui sono liberi, a guardare i pesci e gli altri animali (dai limuli, che appaiono un po' come mostri preistorici, ai granchi, alle conchiglie), interrompendo soltanto per farsi dare le pagaie delle canoe con cui raggiungere le barche ancorate a poca distanza o i pontili vicini, per aprire le noci di cocco cadute dalle palme o per inseguire gli scoiattoli, per giocare a pescare (pescando davvero pesci che in Italia costituirebbero la gioia di qualsiasi pescatore).

Oltre alla ricchezza del mare, c’è davvero anche il tramonto, con le nuvole che viaggiano veloci nella baia e che danno al mare migliaia di sfumature.

Nei due giorni seguenti ci tuffiamo appena svegli, poi iniziano le attività della giornata: le visite al J.Pennekamps Park (dove passeggiamo tra le mangrovie, vedendo uccelli, serpenti e tartarughe), una gita in catamarano a vela sulla barriera (che, nonostante la visibilità limitata prodotta dalla tempesta appena passata, ci offre la vista di migliaia di pesci di almeno una decina di specie differenti e di una grande tartaruga, oltre che di quattro o cinque tipi diversi di corallo), una nuotata con i delfini, la vista di barche di ogni genere, una cena a base di tonno, mahimahi e alligatore in un ristorante sull’oceano, una serata a cuocere e mangiare carne sulla riva del mare. Ma queste cose meritano altri racconti.

Una sola cosa non si può raccontare, perché non c’eravamo: il giorno dopo il nostro arrivo - mentre noi eravamo a nuotare con i delfini - una famiglia di lamantini (un maschio, una femmina e un cucciolo) è arrivata di fronte al pontile e si è fermata a brucare, spingendosi anche a guardare con curiosità un bambino californiano e i suoi genitori (gli unici clienti del motel oltre a noi) che stavano nuotando e giocando lì di fronte.

venerdì 5 settembre 2008

con Fay a Miami







Di ritorno dall'isola d'Elba, l'equipaggio di PatuPatu (Cristina, Paolo, Simonetta e io) è volato dall'altra parte dell'Oceano atlantico, diretto nelle isole della Florida. L'atterraggio a Miami è avvenuto il 17 agosto, dopo una sosta ad Amsterdam, ed è stato seguito dopo poche ore dall'arrivo della tempesta tropicale Fay.

Nei programmi la permanenza a Miami era stata limitata al massimo: una giornata, per ambientarsi al nuovo fuso e al nuovo clima. Una decisione legata un po' anche alle visite precedenti a Miami, di passaggio da o verso l'America latina. In queste visite quasi soltanto un aspetto della città era risultato evidente: quello di polo di attrazione commerciale per i latinoamericani e anche per i turisti italiani.

Un polo fatto di centri finanziari, di una massiccia presenza di immigrati ispanofoni (tra i quali anche numerosi militari e uomini politici costretti a lasciare i loro paesi dalla caduta delle dittature e dall'affermazione di sistemi democratici), di grandi centri commerciali, delle immagini stereotipate dei telefilm - una spiaggia su cui si affacciano grattacieli e locali notturni, gente ricca e famosa su motoscafi e così via – e della vicinanza con i lunapark di Orlando.

Fay, invece, ci ha costretto a restare in città un po' più a lungo (le vie per le Florida keys erano chiuse ed era stato emanato un “warning” e un preavviso di evacuazione per le isole), rivelando uno degli aspetti principali della città: quello del rapporto con l'acqua.

Già prima dell'atterraggio questo rapporto ha iniziato a disvelarsi: non soltanto per il fatto che la città si distribuisce anche su alcune isole, ma anche per il fatto che la “terra ferma” stessa su cui la città è sparsa (forse questo è il termine migliore per indicare la dispersione dell'insediamento, che comprende alcuni nuclei di edifici alti e concentrati, ma che è costituito soprattutto da migliaia di casette, baracche e trailers) è attraversata da una miriade di canali e cosparsa di centinaia di pozze e laghetti.

La presenza ingombrante e spesso conflittuale dell'acqua nella città è diventata evidente una volta scesi a terra.

Dopo essere entrati in possesso di un'automobile a noleggio, per raggiungere “South Beach” abbiamo dovuto attraversare una miriade di ponti, di canali e di isolette, distratti dalle barche ormeggiate (molte a motore, qualcuna a vela).

La prima sera, il nostro contatto con l'acqua si è limitato a questo e alla notizia dell'arrivo di Fay.

La mattina – ancora soggetti al fuso orario italiano – siamo usciti presto e, dopo aver attraversato un paio di strade, siamo andati sulla spiaggia, ancora deserta.

Ad accoglierci abbiamo trovato qualche senzatetto addormentato sulle panchine, alcuni uccelli che lottavano con il vento - che intanto ci sferzava le gambe con la sabbia - e soprattutto un orizzonte coperto di nuvole nere. Fay velocemente si stava avvicinando.

In pochi minuti, al vento si è aggiunta la pioggia che ci ha costretto a cercare un riparo. Pioggia che poi è continuata, spesso violenta, per gran parte del giorno, con poche brevi pause.

Non ci è restato che prendere l'automobile e girare per la città, tra i temporali.

Dopo aver percorso tutta Miami Beach da sud a nord, ci siamo diretti verso North Miami e poi con un percorso a ZigZag – tra strade, canali, villette middle class e baracche di immigrati haitiani – siamo scesi verso “Downtown”, dove si trovano gli edifici delle compagnie finanziarie, e quindi verso il porto e di nuovo a Miami Beach, attraversando di nuovo il braccio di mare che la divide dalla terra ferma, nel quale si trovano altre isolette, occupate da ville più o meno sontuose.

Nonostante il vento, l'acqua nel braccio di mare che è al centro della città era calma: il basso fondale non permette il formarsi di onde molto alte, così come non lo permette la “chiusura” dello specchio d'acqua da ogni lato. Vi si formano invece piccole e ripide onde, che danno un'idea del vento meglio di qualsiasi anemometro.

Una città d'acqua, con un grande porto, un mare interno, spiagge, isole e innumerevoli pontili ed ormeggi; ma anche un po' una città contro l'acqua, in parte costruita occupando le isolette esistenti e in gran parte costruita costringendo l'acqua che occupava la terra ferma all'interno di canali e rigagnoli. Fay ha reso evidente, però, che l'acqua ogni anno riconquista almeno temporaneamente i suoi spazi, allagando le strade (che di rado hanno una struttura che consente all'acqua di defluire) e spesso anche le case.

La relazione difficile con l'ambiente naturale forse mostra il carattere nord-americano della città. La gente e il funzionamento della città stessa ne dimostrano invece una quasi appartenenza all'America latina.

Nei negozi e nelle strade lo spagnolo è più diffuso (e riscuote maggiore simpatia) di quanto non faccia l'inglese. Nei supermercati si trova più spesso il cibo latinoamericano, riso, frijoles, tamales, platanitos che non quello che in genere viene riconosciuto come Yankee. Tanto è che dopo i primi giri in città, il primo pasto – insieme ai nostri amici già in città da una settimana – è stato comprato parlando in spagnolo: pollo, tamales, platanos e puré.

A quel pranzo è seguita una cena, in un ristorante argentino, parlando in spagnolo della crisi argentina e della politica latinoamericana con un cameriere costretto a lasciare Buenos Aires dalla crisi economica generata dalle politiche (e dalla corruzione) di Menem. Intanto fuori Fay continuava a soffiare, sbatacchiando le palme, rompendo vetri e persino facendo volare qualche incauto “kitesurfer” fino ai primi palazzi affacciati sulla spiaggia.

La violenza di Fay è passata in fretta: già il 19 agosto è stato possibile girare un po' di più. Ne abbiamo approfittato per andare a Key Byscaine. Il parco nazionale era ancora chiuso a causa della tempesta. Siamo stati costretti, quindi, a cercare un accesso al mare tra le ville e che occupano l'isola. Invano. Tutte le aree adiacenti al mare dell'isola, al di fuore di quelle appartenenti al parco nazionale, sono occupate da abitazioni private o da club, che non soltanto occultano la vista del mare a quelle situate più indietro ma impediscono anche il semplice accesso al mare per la maggior parte degli abitanti di una delle aree più affluenti dell'area di Miami.

Non si può fare a meno di pensare che a portare così tanti ad abitare a Key Biscaine non sia tanto l'idea di abitare su un'isola, in contatto diretto con l'oceano, quanto piuttosto quello di abitare in un luogo chiuso. Lontano dai pericoli della città. E una breve visita a Hibiscus e nelle altre isolette di Miami confermano quest'impressione. Alcune abitazioni sono sulla riva e dispongono di pontili privati. Molte altre non hanno nessun contatto con il mare, anche se spesso vi si trovano parcheggiati rimorchi con grosse barche con il motore fuoribordo. Esattamente come accade nelle aree meno ricche di North Miami, di “Little Haiti” o della “Calle 8”.

Tornando verso Miami abbiamo però incontrato un piccolo parco statale. Chiuso anch'esso, ma con un cancello aperto, che ci ha consentito di entrare comunque e di godere della vista del mare e della foresta di mangrovie quasi da soli (insieme a noi, infatti, erano entrati alcuni altri curiosi). Appena arrivati sulla spiaggia, ovviamente attrezzata di tavolini da picnic e fornelli da barbecue, siamo stati accolti da alcuni racoon, oltre che da qualche gabbiano e da qualche garzetta. I primi animali incontrati, senza contare lo scoiattolo grigio che la mattina ci ha guardato curiosamente da un albero sulla spiaggia di South Beach.

Al ritorno da Key Biscaine ci siamo fermati downtown, per fare un giro sul treno monorotaia che attraversa il centro e che unisce il centro economico con la ferrovia metropolitana che collega alcuni dei quartieri della città. Stranamente non abbiamo incontrato nessun turista. Il treno deserto - almeno in quel pomeriggio di un giorno tempestoso – nel tratto che attraversava i grattacieli del centro finanziario, si è affollato di donne, uomini e bambini latinoamericani e nero-americani (neanche un WASP) nel tratto che unisce le stazioni della metropolitana.