mercoledì 22 aprile 2009

STORIE FANTASTICHE DEL DELTA DEL NIGER

Mentre si celebrava il natale di Roma con spettacoli e manifestazioni più adatte alla festa del patrono di un paesetto di provincia che a quelle di una capitale europea, nella stessa città, in un luogo molto evocativo - l’Antico mercato del pesce degli Ebrei, proprio sotto il Campidoglio, a pochi metri dal Circo Massimo - si svolgeva lo spettacolo dal fascinoso titolo “Storie fantastiche del Delta del Niger”.

Una produzione della Fondazione Alda Fendi, diretta da Raffaele Curi, con Lino Capolicchio, Anna Clementi, Fabrizio Traversa, Kayije', Patricio Akkary, Zakari Affouda, Raffaele De Vita, Eleonora Donati e – soprattutto – con la cantante del Benin Angelique Kidjo.

Tuttavia, né il titolo, né la voce di Angelique Kidjo, né la capacità degli attori e neanche la sofisticata messa in scena e le buone intenzioni dell’autore sono stati sufficienti a superare il velo del senso comune che nasconde la complessità africana agli occhi europei.

Di “storie fantastiche del Delta del Niger”, cioè della ricchezza culturale che si è prodotta nei secoli intorno a uno dei più grandi fiumi del mondo, che attraversa la terra di popoli diversissimi (Tuareg, Peul, Kanouri, Hausa, Ibo, Dogon, Yoruba – solo per citarne alcuni), nella rappresentazione non c’è nessuna traccia.

Ci sono invece i corpi degli africani (esposti come statue immobili e silenziose nella platea in mezzo al pubblico, o a rappresentare il fatto che anche gli africani sono uomini in sovrapposizione con un disegno di Leonardo da Vinci) a cui è consentito di prendere voce soltanto nelle canzoni di Angelique Kidjo.

E poi ci sono le voci degli europei: quella di Re Lear; quella dello scrittore J.M.G. Le Clézio, che parla del fascino fisico, emotivo e magico dell’Africa e del suo essere preda dell’Europa; quelle delle statistiche e dei dati sulle malattie, le guerre e le migrazioni. E poi ci sono la musica di John Cage, i poliritmi dei tamburi e della Kora, le immagini proiettate: animali selvaggi, paesaggi, soldati, parole in lingue diverse, passaporti (di un solo paese, la Nigeria), teste di sculture yoruba; e le figure mute degli attori africani.

Nonostante il titolo, ancora una volta sembra che l’Africa non possa essere raccontata se non dagli Europei – che ne subiscono il fascino, rappresentandola di volta in volta come paradiso o come un inferno, ma in ogni caso riducendola alla sola dimensione estetica - e che alla sua gente non venga riconosciuta alcuna propria capacità di parlare, di raccontare, di rappresentare o di criticare la realtà.

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